martedì, giugno 24, 2008

A season in review (aspettando Pechino)

Ed eccoci qua, a fare un'analisi della stagione appena trascorsa, anche se quest'anno l'atto conclusivo della stagione cestistica s'ha ancora da fare. Ma delle Olimpiadi avremo modo di parlare più avanti. Vediamo cos'è successo fino ad oggi.
NBA
è finita come doveva finire, come ha detto nel pezzo precedente il mio socio. C'erano i Boston Celtics, costruiti per vincere, con gli innesti di Ray Allen, Kevin Garnett, James Posey, Sam Cassell e compagnia cantante. La squadra più titolata della NBA, che però non portava a casa il titolo dal lontano 1986, aveva tutta la pressione su di sé. Risultato? 66-16 in stagione regolare (terzo miglior record stagionale per i biancoverdi, dodicesima squadra di sempre a chiudere la stagione con oltre l'80% di vittorie), un po' di spaventi nei primi due turni dei playoff (4-3 a sorpresa - nel senso che avremmo tutti scommesso su un 4-0 - contro gli Hawks, 4-3 contro i Cavs di LBJ), l'innalzamento del proprio livello di gioco quando è stato necessario per delle vittorie tutto sommato neanche troppo sudate contro gli avversari più seri e tosti, i Detroit Pistons prima e i Los Angeles Lakers poi. Titoli di coda e titolo ai Celtics. Per vedere la maglia di Paul Pierce sul tetto del Boston Garden è solo questione di tempo.
Di questa stagione si ricorderanno anche i New Orleans Hornets (alzi la mano chi li avrebbe immaginati a questi livelli); i Los Lakers di Bryant, Odom e Gasol ma - purtroppo - non di Bynum: se ne riparla il prossimo anno; Gli Atlanta Hawks, che tutti aspettano al via della prossima stagione per scoprire se trattavasi di fuoco di paglia o se c'è materiale per competere ad alti livelli nei prossimi campionati; le disastrose trade che hanno tolto di mezzo Mavs e Suns dalla lista delle pretendenti al titolo a metà stagione, in ossequio al famoso detto in voga da quelle parti: if ain't broken, don't fix it; la stagione NERISSIMA dei Miami Heat, campioni due anni fa e fermi a un imbarazzante (per chi scrive) 15-67 che peraltro non gli frutterà neanche la prima scelta assoluta.
Greg Oden risulta non pervenuto.
EUROLEGA
Anche qui, ha vinto chi doveva vincere, ovvero l'Armata Rossa del CSKA Mosca. Non sarà proprio del tutto un caso, se andiamo a vedere il roster dei rossi moscoviti, e soprattutto se vediamo chi siede sul pino. Dell'edizione appena trascorsa, che ha visto il ritorno su nobili palcoscenici della Virtus Bologna (che però se n'è uscita mestamente con due vittorie e 12 sconfitte sul groppone), ricorderemo la presenza di due allenatori italiani alle Final Four, dove però uno si è confermato - senza che ce ne fosse troppo bisogno - come uno dei migliori sulla piazza, poco importa da che parte dell'Atlantico si guardi alla faccenda, mentre l'altro si è rivelato se non altro poco adatto alle partite "dentro-fuori". Come spiegare, altrimenti, la pochezza di idee offensive con cui la Montepaschi Siena si è fatta rimontare e battere da un Maccabi mai così alla sua portata, stabilendo il record di triple tentate in una partita di Eurolega (45, di cui solo 11 a bersaglio)? Il prossimo anno Siena ci riproverà, pare in una versione ancor più attrezzata di quella vista all'opera quest'anno. Per Ettore Messina siamo a quota 4 Euroleghe vinte, per Simone Pianigiani siamo all'ultima occasione, probabilmente. C'è stato anche l'esordio di Danilo Gallinari, che sebbene abbia disputato solo il primo turno (3-11 per l'Olimpia Milano), si è portato a casa il Rising Star Trophy di quest'anno. Per la serie "onore ai vincitori ma anche ai vinti".
ITALIA
Ha vinto Siena, qui. E che scoperta, direte voi. Lo si sapeva più o meno da Agosto 2007. C'è stato anche un certo strapotere, in questo terzo scudetto biancoverde. Ancor più di quello visto lo scorso anno, che la Mens Sana concluse con un 30-4 in stagione regolare e un 9-1 nei playoff: si disse che fare meglio sarebbe stato quasi impossibile, e invece questa stagione è stata chiusa dai senesi con un imbarazzante (per gli avversari) 31-3, e i playoff con un 10-1. Eppure, eppure.
Eppure non c'è paragone con la Virtus che vinceva a cavallo tra gli anni 90 e il 2000: di tutt'altro livello era il nostro campionato. Eppure il premio di allenatore dell'anno è andato altrove, a quel Boniciolli che ha portato a compimento il Miracolo Avellino, permettendosi di strappare anche la Coppa Italia dalle tenaglie senesi. Eppure non riusciamo a provare simpatia per una squadra dove il primo italiano in rotazione è Marco Carraretto, 10 minuti a gara in campo, e dove lo scorso anno si scelse di cedere in prestito Gigi Datome perché per lui, in questa multinazionale schiacciasassi, non c'era posto. Certo che si vince, coi McIntyre, coi Kaukenas, con gli Stonerook, Lavrinovic, Thornton, Eze, Ilievski, Diener. Ma non aspettiamoci sostegno incondizionato, anche perché poi le Olimpiadi, delle quali eravamo vicecampioni uscenti, ci tocca guardarle da spettatori disinteressati. E un po' di colpa, Siena, bisogna che se la prenda.
Della retrocessione di Varese non parlo volentieri. Si riparte dalla LegaDue e da Stefano Pillastrini. Altro non occorre aggiungere.
Un saluto doveroso va anche al Poz, anche se non ci ha mai rilasciato l'intervista, e a Paolino Moretti, che invece ce l'ha rilasciata.
NCAA
La vittoria dei Jayhawks ha fatto da preludio a quella dell'illustre prodotto di Kansas, Paul Pierce, che peraltro nella sua carriera collegiale non era riuscito a portare a casa un titolo NCAA che mancava all'ateneo dal 1988. Il revival degli anni 80, dunque, ha coinvolto anche il basket universitario. All'epoca in panchina c'era Larry Brown e in campo Danny Manning, quest'anno c'erano l'astro nascente Bill Self e Mario Chalmers. Singolare come - salvo ripensamenti dell'ultim'ora - nessun Jayhawk finirà nelle scelte alte di lotteria (Brandon Rush è dato tra la 13 e la 15). A Lawrence se ne faranno una ragione, ne siamo certi. A Memphis, invece, sono ancora indecisi se mangiarsi le mani o mangiarsi John Calipari. Probabilmente sceglieranno la prima opzione: hanno comunque vinto 38 partite (nuovo record NCAA) su 40 giocate, e manderanno entrambe le guardie al primo turno del draft del piano di sopra. Sarà contento Penny Hardaway: i suoi Memphis Tigers, finalmente, non sono più soltanto suoi. Dove di sicuro si mangiano le mani è a Los Angeles: gli UCLA Bruins hanno partecipato alle Final Four per il terzo anno di fila (su cinque della gestione di coach Ben Howland), ma tanto per non smentirsi, sono rimasti fermi a quota 11 titoli vinti, quota raggiunta nell'ormai lontano 1995.

1 commento:

sasha ha detto...

A proposito di Pechino...visto le convocazioni? Premesso che tiferò Spagna e Argentina, per perdere con quei giocatori bisogna davvero impegnarsi...

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