Lo ammetto: se ad ottobre qualcuno mi avesse pronosticato che i Miami Heat sarebbero partiti 10-8, probabilmente mi sarei messo a ridere. O quasi. Ammetto anche che il 72-10 di cui parlavo al pezzo precedente era più una provocazione che un reale pronostico; una provocazione dettata dalla grande eco che ha accompagnato l'arrivo a Miami di Bosh prima e LeBron James poi. C'erano e ci sono delle aspettative talmente elevate, su questi Miami Heat, che niente di meno di una stagione da record sarebbe stata ammissibile, da parte dei ragazzi guidati da coach Erik Spoelstra.
Poi è arrivato novembre, e ha spazzato via tutti i sogni, lasciando solo lo spazio alla realtà nuda e cruda. La realtà che dice 10-8, che in proiezione fa 45 vittorie, cioè due in meno rispetto allo scorso anno, quando non c'erano né James né Bosh. La realtà di una squadra che non si conosce, che fa fatica a produrre gioco in modo continuo, che è priva di alcuni "giocatori chiave" che in NBA - e questo non lo scopro certo io - sono spesso quelli che fanno la differenza, quanto le superstar e forse più.
La superficialità con cui il tema della "falsa partenza" degli Heat è stato affrontato (sulla Gazzetta dello Sport di sabato 27 novembre) da coach Dan Peterson, però, oltre a sconcertare chi scrive, non dà nessuna indicazione circa la situazione. Scrive il coach: "loro hanno un attacco poco equilibrato, mentre hanno bisogno di 23 da James, 20 da Wade, 17 da Bosh." Medie del primo mese del "trio delle (mancate) meraviglie": James 23.4, Wade 21.3, Bosh 17.9. Lascia stare, coach. Il problema (i problemi) è (sono) altrove, e se tu avessi visto qualche partita, o qualche highlight, o anche solo qualche box score te ne saresti accorto anche tu.
I problemi degli Heat sono - essenzialmente - riconducibili a tre fattori, tutti ovviamente rimediabili, anche perché con un roster come quello di Miami di quest'anno se ti dai per spacciato a fine novembre è il caso che tu cominci a prendere in considerazione l'idea di dover cambiare mestiere.
Il primo problema è quello dei rimbalzi. Bosh ne prende poco più di 7 a partita, Wade poco meno di 6 (che per lui non sono pochi, anzi), James poco più di 5 e mezzo, cioè il suo dato più basso dai tempi della stagione d'esordio. Il miglior rimbalzista della squadra, Udonis Haslem (8.2), è fuori per un infortunio ai legamenti e ne avrà per un po'. Complessivamente, comunque, la batteria di lunghi di Miami si è mostrata estremamente carente in questo aspetto del gioco (gli Heat sono 21esimi della NBA a rimbalzo, con un saldo di -0.58 rispetto ai rimbalzi concessi agli avversari). E questo è un aspetto, peraltro non di poco conto.
Il secondo problema è appunto quello della mancanza dei key players, quei giocatori a cui affidarsi per alleggerire la pressione dalle superstar nei momenti cruciali di una partita. Quelli che ti mettono un tiro da tre quando serve, quelli che difendono bene, anzi meglio, per quelle tre o quattro azioni che decidono una gara, quelli che - insomma - fanno la cosa giusta al momento giusto. Abbiamo già detto di Haslem, c'è da dire che dobbiamo ancora vedere in campo Mike Miller, che agli Heat darà tiro da tre, un cambio agli esterni e un po' d'aiuto nel playmaking, che poi è il terzo punto di cui bisogna parlare, quello che è all'origine del record sin qui deficitario dei Miami Heat.
Erik Spoelstra ha affidato le chiavi della squadra a Carlos Arroyo, relegando di fatto ai margini della rotazione Mario Chalmers (8.5 minuti a partita), anche se Arroyo non ha dimostrato, sin qui, spiccate doti da playmaker; probabilmente alla base di questa scelta c'è la migliore attitudine difensiva del portoricano, e il fatto di poter contare su due eccellenti passatori come James e Wade. C'è anche una scarsa considerazione nei confronti di Chalmers, che aveva portato lo scorso anno Miami a firmare Arroyo prima e Rafer Alston poi. Ma nel basket avere o non avere un play non fa la differenza solo nel numero di assist che la squadra mette insieme. Fa la differenza soprattutto in altri piccoli aspetti del gioco: un secondo in meno nel portare la palla nella metà campo avversaria; l'individuazione di un compagno in giornata di grazia o viceversa in una giornata storta; l'assist utile prima che spettacolare; il giusto posizionamento dei compagni al momento di chiamare lo schema d'attacco. Questo è il punto in cui Miami mostra il fianco all'avversario, e qui è probabilmente l'unico punto del roster che necessita di interventi: se Arroyo non è abbastanza play, se di Chalmers non ci si fida a sufficienza, bisogna cercare altro. Perché il play è l'estensione del coach in campo, un po' come è stato nel 2006 quando infatti gli Heat avevano Jason Williams e Gary Payton, non proprio gli ultimi due arrivati. Altrimenti, perché pensate che Pat Riley non sia ancora sceso in panchina a sostituire Spoelstra, con una squadra così?
3 commenti:
Ottima analisi, soprattutto quella riguardante il playmaker :)
Al di là di ogni sfottò e campanilismo (devo ammettere che ho goduto forte con questi Heat), bisogna dire che sono troppo brutti per essere veri...mi aspetto una seconda parte - dall'ASG in poi - da urlo...resta il fatto che LBJ somiglia sempre di più al giocatore più sopravvalutato della storia...
@Stipe: sai, ancora mi ricordo quelle due o tre cosette... :D
@Matt: lo so che ci godi e anche io al tuo posto farei lo stesso. LBJ, come tutti, verrà giudicato a fine carriera. l'unico consiglio, con una squadra del genere, è di non vendere la pelle dell'orso prima di averlo ammazzato... ;)
Posta un commento