giovedì, gennaio 21, 2016

Dei Golden State Warriors e del basket contemporaneo

E non è colpa mia se esistono carnefici
se esiste l'imbecillità
se le panchine sono piene di gente che sta male.
Up patriots to arms, engagez-vous
la musica contemporanea, mi butta giù. 

 Ci sono citazioni musicali che sono talmente potenti da poter essere adattate ai contesti più disparati. Io non lo so se questa è una di quelle, ma il parallelo "la musica contemporanea mi butta giù - il basket contemporaneo mi butta giù" è un po' l'assunto da cui muove tutto questo pezzo, ragion per cui mi sembra giusto esplicitare il riferimento. Per quei tre o quattro che non lo avessero afferrato, è "Up patriots to arms" di Franco Battiato, anno di grazia 1980, cioè l'anno in cui in NBA esordivano Larry Bird e Magic Johnson, vedi te a volte le coincidenze.


Una volta era la NBA dei nostri nonni. Si giocava sotto il ferro, spesso si tirava da fuori, anzi, da parecchio fuori, perché le difese tendevano a schiacciarsi nell'area e quindi era difficile segnare in avvicinamento.  Non era raro vedere tiri da distanze siderali, avere un buon jumper era conditio sine qua non per arrivare nella Lega che ancora non aveva Jerry West nel logo, e non aveva ancora una linea del tiro da tre punti.
Poi arrivarono Bob Cousy, Bob Pettit e George Mikan a sparigliare le carte.  Cousy definì molti aspetti del playmaker, introducendo elementi di spettacolarità fino ad allora impensabili ai più. Pettit e Mikan furono per molti versi i pionieri del post basso, quelli che tracciarono un sentiero che per quasi sessant'anni è stato battuto, con minime variazioni, dalle squadre di tutto il mondo, di qua e di là dall'Oceano.  Gli assunti erano semplici:

1) Il playmaker deve saper impostare il gioco, far muovere la squadra, passare al compagno giusto, se ogni tanto segna e prende qualche rimbalzo, tanto meglio.
2) I lunghi devono saper segnare in avvicinamento, avere movimenti sicuri spalle a canestro, possibilmente schiacciare, devono essere rimbalzisti e intimidatori.

I puristi di tecnica e tattica vi diranno che è molto più complicata di così - e grazie, lo so da solo - e tuttavia questi due elementi, da soli, stavano ad indicare che il gioco aveva più dimensioni. Si segna, o almeno ci si prova, da sotto canestro, si segna o almeno ci si prova da fuori, si prova a segnare dalla media, in entrata, guadagnarsi dei falli, tirare bene i liberi eccetera. Il bello del basket come noi lo abbiamo conosciuto, insomma, uno sport in cui tutto poteva succedere. La scelta di usare l'imperfetto, qui, è sofferta ma non casuale.
Poi gli attacchi si sono evoluti, c'è stato chi si è costruito una carriera sul pick-and-roll, chi sapeva solo schiacciare, chi ha abusato degli avversari con la triangle offense e chi ha vinto titoli senza fare cose straordinarie in attacco ma dominando in difesa, chi "plays the right way", chi gioca basket "europeo" e chi è dipendente dalla propria stella.

Evoluzione è la parola chiave di tutto questo intricato discorso, lo scrivo separato dal resto così è più chiaro a tutti, me compreso.

Poi ci sono stati i Golden State Warriors, e io non so cosa pensare. O meglio, lo so, anche se non sono sicuro che mi piaccia.  I Golden State Warriors mi mettono in imbarazzo per il mio modo di pensare pallacanestro. Mi mettono in difficoltà perché ribaltano tutti i concetti che sono stati alla base del basket, di cui ai punti 1) e 2) poche righe sopra.
Il game plan dei Golden State Warriors nasce da un assunto per certi versi elementare (eh oh, parliamo di basket, mica di astrofisica nucleare): le aree delle squadre NBA sono sempre più presidiate di giocatori sempre più atletici e rapidi, per cui tutto deve nascere da fuori dall'arco dei tre punti. Se giochi contro i Warriors di oggi, ti esponi all'eterno dilemma della coperta corta:  accetti di prenderti il rischio di farli tirare da tre punti, consapevole del fatto che otto tizi che fanno parte della rotazione tirano con una percentuale oscillante tra il 38,5% e il 45,5%, oppure ti apri un po' di più sugli esterni, rinunciando a parte del presidio dell'area di cui sopra? I Warriors hanno una grandissima circolazione di palla, giocano bene il contropiede, difendono di squadra. Eppure, quando io guardo una partita - o anche solo qualche spezzone - delle loro, ho l'impressione di non stare assistendo ad un'evoluzione del gioco, quanto ad una sua involuzione, ad un ritorno alle origini, in cui si tirava spesso da lontano se non da lontanissimo, perché avventurarsi nei paraggi del canestro era rischiosissimo. Il pericolo, insomma, arriva in primo luogo da oltre l'arco dei tre punti, e lungi da me voler anche solo minimamente insinuare che i vari Steph Curry, Klay Thompson, Draymond Green non siano giocatori sopraffini (e del resto, che Curry fosse forte, su queste pagine lo scrivevamo già nel 2008).  
Il problema, tra Golden State e la mia weltanschauung cestistica (ma deve essere un problema mio, ne sono pressoché certo) è però stratificato e complesso, e non credo che sia del tutto "colpa" dei Golden State Warriors, che potrebbero essere stati o i più bravi ad interpretare l'andazzo che stava/sta prendendo il basket, o i più bravi a fare di necessità virtù, o magari entrambe le cose. Tutto può essere.

La prima parte del problema è che, a mio modestissimo parere, i Warriors rappresentano un modello di fare basket sbagliato, per tutto quello che è al di sotto dei loro (altissimi) standard. Perché loro hanno l'unico giocatore al mondo che tira col 40% nel range che va dagli otto ai dodici metri dal canestro, e voi no.  Perché loro sanno tirare tutti da tre, e voi no. Perché - conseguentemente - loro possono partire in contropiede, arrestarsi sulla linea dei tre punti, tirare e segnare con una percentuale molto alta di riuscita, diciamo quasi il 50%, mentre se lo fate voi, se lo facciamo noi comuni mortali, se va bene segnamo due volte su dieci, col risultato di A- fare imbufalire il coach, B- esporci ad un contro-contropiede, C- con ogni probabilità, subire un canestro facile, D- fare la figura dei bischeri. Quindi in breve il problema non sono loro, quanto i loro emuli presenti e futuri. Perché non potranno essere altro se non copie sbiadite degli originali, offrendo agli spettatori uno spettacolo di livello sempre più infimo: sempre meno attacchi in post basso, sempre più tiri da tre o al massimo attacchi in uno contro cinque. Lo vediamo già oggi nel basket collegiale, e in parte anche in quello italiano ed europeo, per dire.

La seconda parte del problema è conseguente alla prima: vincono, quindi hanno ragione loro. Però questo mi crea pruriti ancora più forti, se considero che sono cresciuto vedendo giocare Jordan, Drexler, Bryant eccetera, ma anche Olajuwon, O'Neal e Tim Duncan, solo per dire tre nomi di esterni e tre nomi di lunghi, senza starci troppo a pensare su. Ecco, in una Lega dove la Storia con la esse maiuscola parte da George Mikan e va avanti con Bill Russell, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul-Jabbar, tutti i centri degli anni 90 che solo a pensare di scriverli mi viene il groppo alla gola, via via fino al già citato Duncan, vedere che la squadra che sta STRAdominando il campionato ha un frontcourt che, a parte il già citato Draymond Green (che comunque è 2.01, fate conto un novello Larry Johnson, o miei coetanei), ha gente come Andrew Bogut, Festus Ezeli e poi boh fate voi, ecco, mi sembra un po' pochino. Prima che abbiate il tempo di dire "eh ma anche", no: i Chicago Bulls avevano negli spot 3-4-5 Scottie Pippen, Horace Grant e Bill Cartwright, o se preferite Scottie Pippen, Dennis Rodman e Luc Longley, con Kukoc e Bill Wennington a dare il cambio. Non ci sto, al paragone, permettetemi. E comunque, a parte "questi" Bulls, negli anni scorsi i titoli NBA sono andati a gente che aveva dei signori lunghi, se consideriamo che Duncan ha vinto 5 titoli (uno in coppia con David Robinson peraltro), O'Neal quattro (di cui uno in coppia con Mourning), Olajuwon due, Pau Gasol+Andy Bynum due, Garnett uno, Ben+Rasheed Wallace uno. So che tutto questo mi fa apparire molto vecchio: pazienza, me ne farò una ragione.

La terza parte, indubbiamente la più irrilevante dal punto di vista tecnico, è questa: i Warriors sono talmente bravi da risultare antipatici a pelle.  Questo ovviamente vale soprattutto per la loro stella di prima grandezza, Curry.  Lo ammetto, ero un suo ammiratore della prima ora, di quando giocava a Davidson in NCAA e di quando è approdato in punta di piedi in NBA. Ora è un personaggio talmente "mediaticamente pompato" (atteggiamento tipico dei media USA in casi simili) che credo starebbe antipatico anche al sé stesso di 7-8 anni fa.  I tiri dal tunnel di ingresso al campo, le esultanze prima che il tiro da tre sia entrato, i numeri da giocoliere, tutto contribuisce alla creazione di un personaggio quasi disneyano, sia detto non in senso buono: troppo bello per essere vero, troppo perfetto per essere attaccato. Eppure, proprio per questo, capace di farmi disamorare a lui.  Ecco, se dovessi fare un paragone con una squadra di un altro sport, direi che questi Warriors mi ricordano molto da vicino il Barcellona di Messi & co., altro mio odi et amo.  Specialmente da quando hanno aggiunto Suarez e Neymar.  Ma non divaghiamo.
Il basket che amo io - ma non credo di essere l'unico - è fatto di storie difficili, di gente che va all'inferno, fa a testate col diavolo, gli strappa il pizzetto e torna tra noi con ancora i peli della barba in mano.  Gente come Allen Iverson, come Alonzo Mourning, come Jason Williams, come - citiamo un contemporaneo - Jimmy Butler. Gente che se ne frega di rimanere antipatica, come era Michael Jordan, come sono tuttora Kobe Bryant e Kevin Garnett. In una parola, ancora una volta pescata dal fumetto, di antieroi. Gente di cui vedi i difetti, ma proprio per questo ne riconosci a maggior ragione la forza, tecnica ma prima ancora mentale.

Ho un problema: non riesco a farmi piacere i Golden State Warriors che probabilmente batteranno il record NBA di vittorie in una stagione. Ma forse questa frase avrei dovuto scriverla all'inizio del pezzo.

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