Se qualcuno ha mai avvistato, dopo che il 32 in gialloviola (al secolo Earvin Magic Johnson) ha smesso di calcare i parquet, un playmaker più elettrizzante di Jason Chandler Williams, per favore ce lo segnali. Noi non ne siamo a conoscenza. Per capirsi, paragonato a lui Gianmarco Pozzecco sembra un ragioniere in mezze maniche.
Quando vestiva la canotta col 55 dei Sacramento Kings, la sua maglia arrivò ad essere la più venduta di tutte quelle con il logo NBA cucito sopra, roba riservata ai più grandi, Michael Jordan, Allen Iverson, Kobe Bryant e Dwyane Wade per intendersi. E non è che la canotta dei Kings fosse questo grande esempio di design, eh. Ma tutti dicevano di lui "è una testa matta, non potrà mai giocare in una squadra di alto livello, non potrà mai competere per un titolo NBA". E lui prendeva nota.
Noto sin dai tempi del college per una sua certa indulgenza sull'argomento "droghe leggere", passerà alla storia di questo sport come uno dei giocatori sul conto del quale un numero spropositato di analisti si è sbagliato. Nella sua stagione da rookie nella desolazione di Sacramento, le sue giocate hanno fatto saltare dalla propria seggiola i tifosi di tutta America, indipendentemente se fossero o meno suoi sostenitori, in particolar modo per una serie di assist come non se ne vedevano da tempo, e che chi scrive avrebbe avuto difficoltà anche solo a immaginare, figuriamoci ad eseguire in un campionato di un qualsiasi livello. Ne citiamo solo uno, che peraltro potete ammirare anche qui: all'all-star game delle matricole del 1999, in un'azione di contropiede, Jason spinge, fa per passare dietro la schiena ma ci mette il gomito, palla dalla parte opposta a un incredulo Raef LaFrentz, che non trova la forza di concludere in schiacciata come cotanta magia avrebbe meritato.
J-Will, detto "White chocolate" per il suo stile di gioco molto vicino a quello dei giocatori di colore dei playground, è però spesso accantonato nei minuti finali delle partite dei Kings, per una sua attitudine piuttosto spiccata alla palla persa e al tiro forzato. I Kings, che vorrebbero fare il salto di qualità, appena vedono la possibilità di sostituirlo con Mike Bibby eseguono al volo. Williams va ai Memphis Grizzlies, squadra derelitta della NBA appena traslocata da Vancouver. Alla prima stagione con un coach decente e un paio di compagni di squadra all'altezza, scrivete 50 vittorie e primi playoff della storia. Anche qui, i Grizzlies vorrebbero fare un salto di qualità, perché si sa, Williams è un grande, nel frattempo ha alzato un po' le sue percentuali di tiro dal campo, ma un giocatore così non può stare in una squadra di alto livello. Nel 2005 si fanno avanti i Miami Heat, che vorrebbero un play in grado di dare minuti di qualità per dare respiro ad un non più giovanissimo Gary Payton. Qui però le ambizioni sono chiaramente da titolo, in una squadra che ha sì ceduto il prospettino Damon Jones (un giocatore talmente pieno di sé da essersi autoimposto il soprannome di "most electrifying player in the league", vai a capire perché...), ma ha in rosa gente del calibro di Wade, Shaquille O'Neal, Antoine Walker e Payton, appunto.
Arriva ai Miami Heat di Pat Riley, un allenatore noto come motivatore e che ha vinto un po' ovunque abbia allenato. Il quale Pat Riley, ad agosto, appena arriva J-Will lo prende da parte e gli dice, più o meno: "senti, ciccio. Io so che tu hai un sacco di punti nelle mani, sei veloce e hai visione di gioco come pochi altri in questo sport, e io un pochino me ne intendo. Che ne dici di mettere tutto questo ben di Dio al servizio di una squadra che si deve prendere un titolo? Poi se avanza tempo ti faccio anche dare un po' di spettacolo, tranquillo."
Jason non batte ciglio e si mette al lavoro. Il titolo arriva al primo anno, con "White chocolate" a scalzare un sempre meno contento "The Glove" (aka Gary Payton) dal ruolo di regista titolare dei Miami Heat. Nelle finali della Eastern conference, per Miami c'era da vendicare l'onta subita l'anno precedente a domicilio dai Detroit Pistons: nella decisiva gara-6 della serie, Jason mette a referto 21 punti, segnando consecutivamente i suoi primi 10 tiri (finirà con 10-12 e 6 assist): missione compiuta. L'anello da mettersi al dito come campione NBA sarebbe arrivato un paio di settimane dopo.
Per la cronaca, il giocatore che pensava solo alle giocate spettacolari ha tenuto un 44% dal campo, un invidiabile 37% da tre e un 87% ai tiri liberi. Nelle graduatorie individuali di quest'anno, mr. "white chocolate (with a ring)", è secondo in quella più significativa, quando si tratta di valutare l'efficienza di un playmaker: il rapporto tra assist e palle perse. Meglio di Steve Nash, meglio di Jason Kidd e di tutti gli altri. Tranne José Calderon, ma questa è un'altra storia, di cui probabilmente un giorno vi parleremo...
Quando vestiva la canotta col 55 dei Sacramento Kings, la sua maglia arrivò ad essere la più venduta di tutte quelle con il logo NBA cucito sopra, roba riservata ai più grandi, Michael Jordan, Allen Iverson, Kobe Bryant e Dwyane Wade per intendersi. E non è che la canotta dei Kings fosse questo grande esempio di design, eh. Ma tutti dicevano di lui "è una testa matta, non potrà mai giocare in una squadra di alto livello, non potrà mai competere per un titolo NBA". E lui prendeva nota.
Noto sin dai tempi del college per una sua certa indulgenza sull'argomento "droghe leggere", passerà alla storia di questo sport come uno dei giocatori sul conto del quale un numero spropositato di analisti si è sbagliato. Nella sua stagione da rookie nella desolazione di Sacramento, le sue giocate hanno fatto saltare dalla propria seggiola i tifosi di tutta America, indipendentemente se fossero o meno suoi sostenitori, in particolar modo per una serie di assist come non se ne vedevano da tempo, e che chi scrive avrebbe avuto difficoltà anche solo a immaginare, figuriamoci ad eseguire in un campionato di un qualsiasi livello. Ne citiamo solo uno, che peraltro potete ammirare anche qui: all'all-star game delle matricole del 1999, in un'azione di contropiede, Jason spinge, fa per passare dietro la schiena ma ci mette il gomito, palla dalla parte opposta a un incredulo Raef LaFrentz, che non trova la forza di concludere in schiacciata come cotanta magia avrebbe meritato.
J-Will, detto "White chocolate" per il suo stile di gioco molto vicino a quello dei giocatori di colore dei playground, è però spesso accantonato nei minuti finali delle partite dei Kings, per una sua attitudine piuttosto spiccata alla palla persa e al tiro forzato. I Kings, che vorrebbero fare il salto di qualità, appena vedono la possibilità di sostituirlo con Mike Bibby eseguono al volo. Williams va ai Memphis Grizzlies, squadra derelitta della NBA appena traslocata da Vancouver. Alla prima stagione con un coach decente e un paio di compagni di squadra all'altezza, scrivete 50 vittorie e primi playoff della storia. Anche qui, i Grizzlies vorrebbero fare un salto di qualità, perché si sa, Williams è un grande, nel frattempo ha alzato un po' le sue percentuali di tiro dal campo, ma un giocatore così non può stare in una squadra di alto livello. Nel 2005 si fanno avanti i Miami Heat, che vorrebbero un play in grado di dare minuti di qualità per dare respiro ad un non più giovanissimo Gary Payton. Qui però le ambizioni sono chiaramente da titolo, in una squadra che ha sì ceduto il prospettino Damon Jones (un giocatore talmente pieno di sé da essersi autoimposto il soprannome di "most electrifying player in the league", vai a capire perché...), ma ha in rosa gente del calibro di Wade, Shaquille O'Neal, Antoine Walker e Payton, appunto.
Arriva ai Miami Heat di Pat Riley, un allenatore noto come motivatore e che ha vinto un po' ovunque abbia allenato. Il quale Pat Riley, ad agosto, appena arriva J-Will lo prende da parte e gli dice, più o meno: "senti, ciccio. Io so che tu hai un sacco di punti nelle mani, sei veloce e hai visione di gioco come pochi altri in questo sport, e io un pochino me ne intendo. Che ne dici di mettere tutto questo ben di Dio al servizio di una squadra che si deve prendere un titolo? Poi se avanza tempo ti faccio anche dare un po' di spettacolo, tranquillo."
Jason non batte ciglio e si mette al lavoro. Il titolo arriva al primo anno, con "White chocolate" a scalzare un sempre meno contento "The Glove" (aka Gary Payton) dal ruolo di regista titolare dei Miami Heat. Nelle finali della Eastern conference, per Miami c'era da vendicare l'onta subita l'anno precedente a domicilio dai Detroit Pistons: nella decisiva gara-6 della serie, Jason mette a referto 21 punti, segnando consecutivamente i suoi primi 10 tiri (finirà con 10-12 e 6 assist): missione compiuta. L'anello da mettersi al dito come campione NBA sarebbe arrivato un paio di settimane dopo.
Per la cronaca, il giocatore che pensava solo alle giocate spettacolari ha tenuto un 44% dal campo, un invidiabile 37% da tre e un 87% ai tiri liberi. Nelle graduatorie individuali di quest'anno, mr. "white chocolate (with a ring)", è secondo in quella più significativa, quando si tratta di valutare l'efficienza di un playmaker: il rapporto tra assist e palle perse. Meglio di Steve Nash, meglio di Jason Kidd e di tutti gli altri. Tranne José Calderon, ma questa è un'altra storia, di cui probabilmente un giorno vi parleremo...
4 commenti:
Bella storia...J-Will è un'esempio del gap socio -
culturale che ancora esiste tra Loro e Noi...
The Street is talking Bro...
altro ottimo articolo. uno dei giocatori più sottovalutati della lega
Forse sbarcherà a Bologna e se ciò avverrà, ce ne saranno da vedere delle belle!!!
FORZA VIRTUS!
LUCA
This is great info to know.
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