venerdì, gennaio 16, 2009

The Hawk Is Howling

Dall'ultima serie di playoff vinta dagli Atlanta Hawks sono ormai trascorsi dieci anni. Dal trasferimento della franchigia da St. Louis, trentuno, senza apparizioni alle NBA Finals. Dall'ultimo titolo, targato appunto St. Louis Hawks, cinquant'anni. Come se non bastasse, nelle otto stagioni precedenti alla scorsa, la media partite vinte è stata di circa 27 su 82, in pratica una partita su tre.
L'idea che gli Atlanta Hawks fossero una squadra senza futuro prende corpo tra trade incredibili (memorabile, su tutte, quella che portò all'approdo e immediata ripartenza di Rasheed Wallace, che dopo una sola partita giocata ad Atlanta se ne andò ai Detroit Pistons, dove sappiamo un po' tutti quello che ha combinato), scelte scellerate al draft (2000: DerMarr Johnson, visto brevemente anche alla Benetton Treviso; 2001: Pau Gasol, scelto e subito ceduto ai Grizzlies in cambio di Abdur-Rahim; 2006: Shelden Williams, scelto al posto di Brandon Roy), e una gestione societaria quanto meno allucinante, che dava l'idea di voler fare di tutto per attaccarsi addosso l'etichetta di "nuovi Paper Clips", ovvero di franchigia perdente per antonomasia.


Fino a quando, un po' per caso e un po' per una ritrovata pianificazione, gli Hawks dello scorso anno hanno ricominciato ad essere una squadra NBA. Nel modo più semplice possibile, ovvero mettendo in piedi un quintetto con un centro solido (Al Horford, a sorpresa il migliore dei Florida Gators approdati in NBA dopo i due titoli consecutivi in NCAA), un'ala forte atletica, intimidatrice e incredibilmente atletica (Josh Smith), un'ala piccola dalle buone percentuali e discreto rimbalzista (Marvin Williams), una guardia con tanti punti nelle mani e al contempo in grado di creare gioco (Joe Johnson), a cui a stagione in corso è stato aggiunto l'ultimo tassello, ovvero un play valido e di grande esperienza anche ad alti livelli (Mike Bibby). Così gli Atlanta Hawks in versione 2008 acciuffano l'ultimo posto disponibile per i playoff, e questo sarebbe già di per sé un buonissimo risultato, ma il fatto è che al primo turno di playoff fanno anche vedere i sorci verdi ai Boston Celtics, poi campioni NBA, mettendo in mostra momenti di bel gioco, spregiudicatezza e freschezza agonistica. Il quintetto appena citato, infatti, ha un'età media al di sotto dei 26 anni, il che porta soprattutto a due considerazioni: la prima è che i margini di miglioramento ci sono e sembrano anche piuttosto importanti; la seconda è che, con qualche innesto a livello di panchina - che ad oggi appare un po' corta con i soli Ronald Murray, Mo Evans e Zaza Pachulia a dare un minimo di apporto alla causa - questi potrebbero diventare una delle squadre più pericolose della Eastern Conference nei prossimi anni.
Ad oggi, mentre scriviamo questo pezzo, gli Hawks occupano il quarto posto nella Eastern, a sorpresa anche davanti a una squadra come i Detroit Pistons, che negli ultimi sei anni sono sempre arrivati almeno alle finali di conference. Ovviamente, dopo tante stagioni derelitte, non ci sono obiettivi dichiarati, ma la speranza - malcelata ma realistica - è quella di tornare a vincere una serie playoff, la prima da quando non c'è più Lenny Wilkens in panchina, e perché no, vincerne due, cosa che, incredibile ma vero, nella storia degli Atlanta Hawks non è mai successa. Quando si è giovani e si ha talento, è bene non porre limiti alla provvidenza, anche se Josh Childress, il sesto uomo di Atlanta nella scorsa annata, quest'estate non si era mostrato troppo fiducioso nei confronti del progetto di rinascita degli Hawks, preferendo le sirene (e gli euro) del campionato greco alla possibilità concreta di tornare a far gridare le aquile. Che però potrebbero farcela anche senza di lui.

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