E così, i San Antonio Spurs hanno portato a casa il quinto titolo in quindici anni. Abbastanza per parlare di "dinastia", come è stato, in tempi abbastanza recenti, per i Los Angeles Lakers di Phil Jackson (7 partecipazioni alle Finals, cinque titoli tra il 2000 e il 2010) e per i Chicago Bulls di (guarda un po'?) Phil Jackson, (6 vittorie in sei viaggi alle Finals tra il 1991 e il 1998)?
Secondo alcuni, si, per la capacità della squadra di coach Pop di rimanere ad alti livelli per ben tre lustri (oltre il 70% di vittorie in regular season dall'arrivo di Tim Duncan, cinque titoli vinti in sei finali NBA giocate). Eppure c'è qualcosa nella storia degli Spurs che stona un po', anzi, ci sono diverse cose che stonano, per poter collocare appieno questa squadra nel novero delle "grandi dinastie" della NBA.
In primo luogo, ovviamente, il fatto che questi cinque titoli siano stati estremamente "scaglionati": ok, segno di costanza ad alti livelli, ma la costanza ad alti livelli è anche data dalla capacità di partecipare - e vincere - a più Finali consecutive. E invece, le presenze degli Spurs alle finali sono state queste: 1999, 2003, 2005, 2007, 2013 (persa), 2014. Mai un back-to-back, né tantomeno un Three-peat impresa che distingue una grande squadra da una squadra che entra di diritto nella storia della NBA.
Anche sui titoli vinti, poi, ci sarebbe da dire qualcosa. A cominciare dal 1999, quello della stagione più corta dell'era moderna, con la regular season ridotta a sole 50 partite, e l'approdo - a dir poco a sorpresa - alle Finals dei New York Knicks, arrivati al gran ballo con un record di 27-23. Nel triennio 2000-2002, poi, gli Spurs non solo non seppero ripetersi, ma non ci andarono nemmeno vicini. Fuori nel 2000 al primo turno contro i non certo irresistibili Phoenix Suns (3-1) targati Penny Hardaway (ok, Duncan era infortunato, ma Phoenix non sembrava irresistibile, per una squadra che aveva in rosa David Robinson, Sean Elliott, Avery Johnson e Mario Elie); fuori l'anno successivo per 4-0 nelle Finali di conference (col fattore campo a favore) contro i Lakers, con le memorabili imbarcate di gara-3 (-29) e gara-4 (-39); ancora fuori per mano dei Lakers nel 2002, in semifinale di conference, un 4-1 che costrinse L.A. a sudare un po' di più contro i neroargento, ma pur sempre un 4-1. Nel 2003, grazie al contributo fondamentale di Tony Parker e Manu Ginobili, arriva il secondo titolo per gli Speroni, contro i New Jersey Nets di Jason Kidd, che comunque riescono a strappare due partite agli Spurs di cui una a San Antonio. I Nets che sono praticamente gli stessi che l'anno prima si presero un 4-0 dai Lakers e silenzio, per dire. Ma su questo titolo non c'è niente da dire, in realtà, visto che nei playoff della Western Conference San Antonio ha eliminato i Lakers, e nelle finali si è visto probabilmente il miglior Duncan di sempre (per lui le spaventose medie di 24 punti, 17 rimbalzi, 5 assist e 5 stoppate a partita). Curiosità: San Antonio ha vinto tutte le serie playoff con punteggio identico, 4-2.
Nel 2004 gli Spurs sono favoritissimi per il back-to-back, ma dopo aver vinto la prima serie per 4-0 contro i Memphis Grizzlies, affrontano i Los Angeles Lakers con il fattore campo a favore, e vengono eliminati (grazie a un tiro pazzesco di Fisher in gara-5 con 4 decimi di secondo da giocare) con un secco 4-2. Nel 2005, il titolo più sudato, vinto solo a gara-7 contro i tostissimi Detroit Pistons, grazie al tiro da 3 di Robert Horry in gara-5 che portò gli Spurs a San Antonio sul 3-2 anziché sul 2-3. Peraltro, per la prima volta (ma non sarà l'ultima) San Antonio finisce nell'occhio del ciclone delle polemiche per gli arbitraggi (chiedete a Steve Nash e ai Suns per ulteriori delucidazioni). Nel 2006, anno del primo titolo dei Miami Heat, San Antonio si presenta nel lotto delle favoritissime insieme a Detroit e a Dallas. Ed è proprio contro i Mavs, in semifinale di conference, che gli Spurs scrivono una delle pagine più brutte della loro storia recente: San Antonio perde Gara-7 in casa contro i Mavs, in una sfida epica tra Duncan (41 punti e 15 rimbalzi) e Nowitzki (37 punti e 15 rimbalzi). E questo è un altro di quegli spartiacque tra la grande squadra e la grandissima squadra: non sbagliare i grandi appuntamenti. I Bulls di Jordan, per dire, non hanno mai perso una gara-7 in casa loro. Per di più, persa dai Mavs, che poi diventeranno la prima squadra a passare da 2-0 a 2-4 in una finale NBA con il fattore campo a proprio favore.
Nel 2007 arriva il penultimo titolo (fino ad oggi) dell'era-Duncan, il quarto in nove stagioni. Avversari in finale, i Cleveland Cavaliers di LeBron James, che si beccano un 4-0 molto meno secco di quello che potrebbe sembrare (tre partite su quattro San Antonio le ha portate a casa con meno di 10 punti di scarto). Anche in questa occasione, tuttavia, i Suns hanno diverse cose da recriminare (nella fattispecie, basta chiedere al naso di Nash, ma anche ad Amar'e Stoudemire, che accusò apertamente Bruce Bowen e Manu Ginobili di "giocare sporco").
E poi? CINQUE anni consecutivi senza arrivare alle finali NBA. Duecentosettantuno vittorie in stagione regolare (su trecentonovantaquattro partite giocate, poco meno del 70% di vittorie), ma in postseason, beh... due volte fuori al primo turno (1-4 da Dallas nel 2009, 2-4 da Memphis nel 2011, entrambe le volte col fattore campo a favore), una volta al secondo turno (4-0 dai Suns nel 2010), due in finale di conference (4-1 dai Lakers nel 2008, 4-2 dai Thunder nel 2012). 26 partite vinte ed altrettante perse, tra vittorie roboanti e rovesci imprevisti. Mai veramente vicini alle finali NBA, se non nel 2012, dove avevano chiuso col miglior record di tutta la Lega ed avevano strapazzato nei primi due turni gli Utah Jazz e i Los Angeles Clippers con un doppio 4-0 ed essere andati sul 2-0 contro gli Oklahoma City Thunder, che poi li hanno battuti per ben quattro volte consecutivamente. E infine il 2013, con il ritorno, nell'anno forse meno atteso, alle NBA Finals (grazie anche all'infortunio di Westbrook al primo turno dei playoff), contro i Miami Heat di LeBron James, battuto quando era l'acerbo, ventiduenne leader dei Cavs con il 4-0 di cui sopra. Quei Miami Heat che due anni prima avevano perso delle Finals che li vedevano avanti per 2-1 contro i Dallas Mavs di Jason Kidd e WunderDirk Nowitzki, che si erano presi la rivincita contro gli Oklahoma City Thunder ed erano pertanto alla "prova del nove", che in una finale contro San Antonio avevano tutto da perdere: aggiunto Ray Allen ai Big 3, fattore campo a favore, squadra esperta contro squadra ritenuta a fine corsa. E poi succede che invece San Antonio va avanti nella serie. Prima 1-0, sbancando Miami nell'opener della serie con una magia di Tony Parker, poi 2-1 grazie al +36 di gara-3, quindi 3-2, con l'ultima partita in Texas, per giocarsi ben due match point a Miami. E proprio sul primo, in gara-6, si scrive un pezzo di storia del basket, quella che è fatta da chi vince e non da chi perde. Gli Spurs sono avanti 94-89 a 28 secondi dalla fine, e già gli inservienti cominciano a stendere i cordoni gialli intorno al Larry O'Brien Trophy. Tripla di James, 1-2 ai liberi di Kawhi Leonard, 95-92. Sull'ultimo possesso, San Antonio non fa fallo e Ray Allen trova IL tiro da 3 che ricorda a tutti perché lo chiamano "He Got Game". La truppa di coach Pop perde gara-6 al supplementare, e gara-7 ancora nell'ultimo minuto di gioco, quando erano a -2 con 50 secondi da giocare e Duncan ha sbagliato per due volte il tiro del possibile pareggio.
E siamo infine arrivati al presente, al titolo 2014, quello più inatteso - almeno a inizio stagione - della lunghissima storia di questi San Antonio Spurs per cui quasi tutti hanno tifato (o meglio, molti tifavano contro LeBron, ma questa è un'altra storia). Con un capolavoro di gestione delle forze orchestrato da Popovich, San Antonio si presenta ai playoff con un record di 62-20, il migliore della Lega, con un roster praticamente identico a quello della stagione precedente, eccezion fatta per le perdite di Tracy McGrady (ritirato) e DeJuan Blair (passato a Dallas) e l'aggiunta di Marco Belinelli, primo italiano ad aggiudicarsi la gara del tiro da 3 punti all'All-Star Game. Miami, dal canto suo, non ingrana come dovrebbe. Continua a mancare un play, carenza mascherata dalla presenza in campo di James e Wade, che però non ingrana più come in passato. Manca un centro vero, e anche quello finto (Joel Anthony) è stato lasciato andare via, rimpiazzato da una scommessa (Greg Oden, di cui abbiamo parlato tempo fa) troppo azzardata, e infatti persa. San Antonio è arrivata alle Finals sudando e superando dure prove (4-3 contro Dallas al primo turno, 4-2 contro Oklahoma City in finale di conference con gara-6 decisa solo al supplementare), Miami ci è arrivata quasi in scioltezza (4-0 contro Charlotte, 4-1 contro dei Nets troppo brutti per essere veri per tutta la stagione, 4-2 contro Indiana condito dal +25 in gara-6). Risultato? San Antonio ha cominciato a crederci, Miami a sopravvalutarsi e a non vedere più i propri limiti. Situazione acuita ulteriormente dagli stessi Heat, che ribaltano il fattore campo in gara-2. Poi però, per Miami si spegne la luce. Due vittorie esterne per gli Spurs a Miami, 4-1 siglato in Texas e tutti a casa. Quinto anello per Tim Duncan, come Magic e Kobe Bryant. Quarto per Parker e Ginobili, come Shaquille O'Neal. Il titolo di MVP va a Kawhi Leonard, lo stesso dell'1-2 ai liberi di un anno prima. Indubbiamente, comunque, il titolo più meritato dei cinque, insieme a quello del 2005.
Un excursus lungo 15 stagioni, fatto di cinque titoli e una finale persa, tre uscite al primo turno, quattro eliminazioni per mano dei Lakers, sette serie di playoff perse col fattore campo a favore. Numeri da ottovolante, c'è poco da dire. San Antonio ha giocato spesso un basket molto efficace, ha avuto senza dubbio la miglior ala forte degli ultimi vent'anni, forse la migliore di sempre. Ma, ma, ma.
Come mi ha detto un amico via mail, " il basket è anche emozioni, quelle emozioni che i vari Celtics di Bird, lo Showtime losangelino degli anni '80, i Bulls degli anni '90 con il miglior giocatore di sempre, i Lakers di Kobe e Shaq hanno dato."
E San Antonio, eccezion fatta per le lacrime di Belinelli intervistato da Mamoli, tutto sommato, no.
Per qualsiasi rimostranza, potete contattare gli autori del presente pezzo qui:
Rob
Stipe81
Secondo alcuni, si, per la capacità della squadra di coach Pop di rimanere ad alti livelli per ben tre lustri (oltre il 70% di vittorie in regular season dall'arrivo di Tim Duncan, cinque titoli vinti in sei finali NBA giocate). Eppure c'è qualcosa nella storia degli Spurs che stona un po', anzi, ci sono diverse cose che stonano, per poter collocare appieno questa squadra nel novero delle "grandi dinastie" della NBA.
In primo luogo, ovviamente, il fatto che questi cinque titoli siano stati estremamente "scaglionati": ok, segno di costanza ad alti livelli, ma la costanza ad alti livelli è anche data dalla capacità di partecipare - e vincere - a più Finali consecutive. E invece, le presenze degli Spurs alle finali sono state queste: 1999, 2003, 2005, 2007, 2013 (persa), 2014. Mai un back-to-back, né tantomeno un Three-peat impresa che distingue una grande squadra da una squadra che entra di diritto nella storia della NBA.
Anche sui titoli vinti, poi, ci sarebbe da dire qualcosa. A cominciare dal 1999, quello della stagione più corta dell'era moderna, con la regular season ridotta a sole 50 partite, e l'approdo - a dir poco a sorpresa - alle Finals dei New York Knicks, arrivati al gran ballo con un record di 27-23. Nel triennio 2000-2002, poi, gli Spurs non solo non seppero ripetersi, ma non ci andarono nemmeno vicini. Fuori nel 2000 al primo turno contro i non certo irresistibili Phoenix Suns (3-1) targati Penny Hardaway (ok, Duncan era infortunato, ma Phoenix non sembrava irresistibile, per una squadra che aveva in rosa David Robinson, Sean Elliott, Avery Johnson e Mario Elie); fuori l'anno successivo per 4-0 nelle Finali di conference (col fattore campo a favore) contro i Lakers, con le memorabili imbarcate di gara-3 (-29) e gara-4 (-39); ancora fuori per mano dei Lakers nel 2002, in semifinale di conference, un 4-1 che costrinse L.A. a sudare un po' di più contro i neroargento, ma pur sempre un 4-1. Nel 2003, grazie al contributo fondamentale di Tony Parker e Manu Ginobili, arriva il secondo titolo per gli Speroni, contro i New Jersey Nets di Jason Kidd, che comunque riescono a strappare due partite agli Spurs di cui una a San Antonio. I Nets che sono praticamente gli stessi che l'anno prima si presero un 4-0 dai Lakers e silenzio, per dire. Ma su questo titolo non c'è niente da dire, in realtà, visto che nei playoff della Western Conference San Antonio ha eliminato i Lakers, e nelle finali si è visto probabilmente il miglior Duncan di sempre (per lui le spaventose medie di 24 punti, 17 rimbalzi, 5 assist e 5 stoppate a partita). Curiosità: San Antonio ha vinto tutte le serie playoff con punteggio identico, 4-2.
Nel 2004 gli Spurs sono favoritissimi per il back-to-back, ma dopo aver vinto la prima serie per 4-0 contro i Memphis Grizzlies, affrontano i Los Angeles Lakers con il fattore campo a favore, e vengono eliminati (grazie a un tiro pazzesco di Fisher in gara-5 con 4 decimi di secondo da giocare) con un secco 4-2. Nel 2005, il titolo più sudato, vinto solo a gara-7 contro i tostissimi Detroit Pistons, grazie al tiro da 3 di Robert Horry in gara-5 che portò gli Spurs a San Antonio sul 3-2 anziché sul 2-3. Peraltro, per la prima volta (ma non sarà l'ultima) San Antonio finisce nell'occhio del ciclone delle polemiche per gli arbitraggi (chiedete a Steve Nash e ai Suns per ulteriori delucidazioni). Nel 2006, anno del primo titolo dei Miami Heat, San Antonio si presenta nel lotto delle favoritissime insieme a Detroit e a Dallas. Ed è proprio contro i Mavs, in semifinale di conference, che gli Spurs scrivono una delle pagine più brutte della loro storia recente: San Antonio perde Gara-7 in casa contro i Mavs, in una sfida epica tra Duncan (41 punti e 15 rimbalzi) e Nowitzki (37 punti e 15 rimbalzi). E questo è un altro di quegli spartiacque tra la grande squadra e la grandissima squadra: non sbagliare i grandi appuntamenti. I Bulls di Jordan, per dire, non hanno mai perso una gara-7 in casa loro. Per di più, persa dai Mavs, che poi diventeranno la prima squadra a passare da 2-0 a 2-4 in una finale NBA con il fattore campo a proprio favore.
Nel 2007 arriva il penultimo titolo (fino ad oggi) dell'era-Duncan, il quarto in nove stagioni. Avversari in finale, i Cleveland Cavaliers di LeBron James, che si beccano un 4-0 molto meno secco di quello che potrebbe sembrare (tre partite su quattro San Antonio le ha portate a casa con meno di 10 punti di scarto). Anche in questa occasione, tuttavia, i Suns hanno diverse cose da recriminare (nella fattispecie, basta chiedere al naso di Nash, ma anche ad Amar'e Stoudemire, che accusò apertamente Bruce Bowen e Manu Ginobili di "giocare sporco").
E poi? CINQUE anni consecutivi senza arrivare alle finali NBA. Duecentosettantuno vittorie in stagione regolare (su trecentonovantaquattro partite giocate, poco meno del 70% di vittorie), ma in postseason, beh... due volte fuori al primo turno (1-4 da Dallas nel 2009, 2-4 da Memphis nel 2011, entrambe le volte col fattore campo a favore), una volta al secondo turno (4-0 dai Suns nel 2010), due in finale di conference (4-1 dai Lakers nel 2008, 4-2 dai Thunder nel 2012). 26 partite vinte ed altrettante perse, tra vittorie roboanti e rovesci imprevisti. Mai veramente vicini alle finali NBA, se non nel 2012, dove avevano chiuso col miglior record di tutta la Lega ed avevano strapazzato nei primi due turni gli Utah Jazz e i Los Angeles Clippers con un doppio 4-0 ed essere andati sul 2-0 contro gli Oklahoma City Thunder, che poi li hanno battuti per ben quattro volte consecutivamente. E infine il 2013, con il ritorno, nell'anno forse meno atteso, alle NBA Finals (grazie anche all'infortunio di Westbrook al primo turno dei playoff), contro i Miami Heat di LeBron James, battuto quando era l'acerbo, ventiduenne leader dei Cavs con il 4-0 di cui sopra. Quei Miami Heat che due anni prima avevano perso delle Finals che li vedevano avanti per 2-1 contro i Dallas Mavs di Jason Kidd e WunderDirk Nowitzki, che si erano presi la rivincita contro gli Oklahoma City Thunder ed erano pertanto alla "prova del nove", che in una finale contro San Antonio avevano tutto da perdere: aggiunto Ray Allen ai Big 3, fattore campo a favore, squadra esperta contro squadra ritenuta a fine corsa. E poi succede che invece San Antonio va avanti nella serie. Prima 1-0, sbancando Miami nell'opener della serie con una magia di Tony Parker, poi 2-1 grazie al +36 di gara-3, quindi 3-2, con l'ultima partita in Texas, per giocarsi ben due match point a Miami. E proprio sul primo, in gara-6, si scrive un pezzo di storia del basket, quella che è fatta da chi vince e non da chi perde. Gli Spurs sono avanti 94-89 a 28 secondi dalla fine, e già gli inservienti cominciano a stendere i cordoni gialli intorno al Larry O'Brien Trophy. Tripla di James, 1-2 ai liberi di Kawhi Leonard, 95-92. Sull'ultimo possesso, San Antonio non fa fallo e Ray Allen trova IL tiro da 3 che ricorda a tutti perché lo chiamano "He Got Game". La truppa di coach Pop perde gara-6 al supplementare, e gara-7 ancora nell'ultimo minuto di gioco, quando erano a -2 con 50 secondi da giocare e Duncan ha sbagliato per due volte il tiro del possibile pareggio.
E siamo infine arrivati al presente, al titolo 2014, quello più inatteso - almeno a inizio stagione - della lunghissima storia di questi San Antonio Spurs per cui quasi tutti hanno tifato (o meglio, molti tifavano contro LeBron, ma questa è un'altra storia). Con un capolavoro di gestione delle forze orchestrato da Popovich, San Antonio si presenta ai playoff con un record di 62-20, il migliore della Lega, con un roster praticamente identico a quello della stagione precedente, eccezion fatta per le perdite di Tracy McGrady (ritirato) e DeJuan Blair (passato a Dallas) e l'aggiunta di Marco Belinelli, primo italiano ad aggiudicarsi la gara del tiro da 3 punti all'All-Star Game. Miami, dal canto suo, non ingrana come dovrebbe. Continua a mancare un play, carenza mascherata dalla presenza in campo di James e Wade, che però non ingrana più come in passato. Manca un centro vero, e anche quello finto (Joel Anthony) è stato lasciato andare via, rimpiazzato da una scommessa (Greg Oden, di cui abbiamo parlato tempo fa) troppo azzardata, e infatti persa. San Antonio è arrivata alle Finals sudando e superando dure prove (4-3 contro Dallas al primo turno, 4-2 contro Oklahoma City in finale di conference con gara-6 decisa solo al supplementare), Miami ci è arrivata quasi in scioltezza (4-0 contro Charlotte, 4-1 contro dei Nets troppo brutti per essere veri per tutta la stagione, 4-2 contro Indiana condito dal +25 in gara-6). Risultato? San Antonio ha cominciato a crederci, Miami a sopravvalutarsi e a non vedere più i propri limiti. Situazione acuita ulteriormente dagli stessi Heat, che ribaltano il fattore campo in gara-2. Poi però, per Miami si spegne la luce. Due vittorie esterne per gli Spurs a Miami, 4-1 siglato in Texas e tutti a casa. Quinto anello per Tim Duncan, come Magic e Kobe Bryant. Quarto per Parker e Ginobili, come Shaquille O'Neal. Il titolo di MVP va a Kawhi Leonard, lo stesso dell'1-2 ai liberi di un anno prima. Indubbiamente, comunque, il titolo più meritato dei cinque, insieme a quello del 2005.
Un excursus lungo 15 stagioni, fatto di cinque titoli e una finale persa, tre uscite al primo turno, quattro eliminazioni per mano dei Lakers, sette serie di playoff perse col fattore campo a favore. Numeri da ottovolante, c'è poco da dire. San Antonio ha giocato spesso un basket molto efficace, ha avuto senza dubbio la miglior ala forte degli ultimi vent'anni, forse la migliore di sempre. Ma, ma, ma.
Come mi ha detto un amico via mail, " il basket è anche emozioni, quelle emozioni che i vari Celtics di Bird, lo Showtime losangelino degli anni '80, i Bulls degli anni '90 con il miglior giocatore di sempre, i Lakers di Kobe e Shaq hanno dato."
E San Antonio, eccezion fatta per le lacrime di Belinelli intervistato da Mamoli, tutto sommato, no.
Per qualsiasi rimostranza, potete contattare gli autori del presente pezzo qui:
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