giovedì, giugno 11, 2015

Il re è morto, viva il re...

...le ultime parole famose...

...ovvero, Milano abdica dopo solo un anno, e in un modo o in un altro ce ne faremo una ragione. Per diversi motivi, che cercherò qui brevemente di elencare, e che sono in gran parte riconducibili all'operato di Luca Banchi.

1. Quando una squadra ha tutti i favori del pronostico dalla sua, c'è sempre una sottile soddisfazione nel vederla uscire.

Guardando ai roster allestiti dalle squadre italiane a inizio anno, Milano era non una ma due spanne sopra le avversarie. Sulla carta. Poi, come sempre accade nello sport, è il campo l'unico a dare il verdetto.  Perché la superiorità della rosa di Milano, paragonata alle avversarie, ricordava da vicino quella della Mens Sana Siena negli anni scorsi.  Con la differenza - sostanziale e non di poco conto - che la Mens Sana, nel periodo di sette stagioni che va tra il 2007 e il 2013, ha vinto sette scudetti, cinque Coppe Italia, sei Supercoppe italiane. Milano, invece, negli ultimi due anni ha sì contribuito a far abdicare Siena (il che è stato il suo merito principale, aver restituito interesse ad un campionato che negli ultimi anni ne aveva perso la maggior parte), ma ha perso per due volte la Coppa Italia in casa, ha perso la Supercoppa, e ieri ha dato addio alle speranze di back-to-back scudetto. Sempre per mano di Sassari. Così è se vi pare.

2. Quando una squadra è così piena di stelle, ci vuole un timoniere che la sappia far andare dritta.

Lungi da me voler dire che Luca Banchi è un totale incapace, del resto lui allena in serie A e io scrivo di pallacanestro più per hobby che per altro. Ma le responsabilità della débacle di Milano, fuori prima del previsto in tutte le competizioni in cui era in corsa, non possono essere ascrivibili solo alla scarsa vena di Kleiza, alla lunaticità di Hackett, all'incostanza di Samuels, agli anni che passano per Moss come per tutti, o a Gentile che pensa alla NBA.  Troppo facile.
Ho avuto la (s)fortuna di veder giocare la Mens Sana di Banchi dal vivo, contro Varese, nell'anno dell'ultimo scudetto biancoverde.  Ricordo che ne ricavai l'impressione di una squadra che nasceva e moriva nelle giocate dei singoli - per l'appunto Hackett, Moss, Bobby Brown e Matt Janning in attacco, e Benny Eze in difesa.  Ma non di una squadra in cui si vedesse la "mano" del coach:  spaziature in attacco così così, indecisioni nella gestione delle transazioni, spesso attacchi contro la difesa schierata gestiti senza nemmeno chiamare uno schema. Si può dire che anche questo è un modo di allenare, ma permettetemi almeno di dubitare della bontà del metodo.

3. In una piazza come Milano, non si può vivere di rendita e non è mai permesso abbasssare la guardia.

Quando Banchi ha accettato il ruolo di capo allenatore delle scarpette rosse, lo ha fatto con la consapevolezza di andare nella squadra più blasonata d'Italia, ma che nelle 24 stagioni precedenti aveva vinto solo un campionato. Coach anche più "di grido" di lui avevano fallito miseramente:  era una scommessa a cui ci si poteva prestare, insomma.  Se avesse vinto, sarebbe stato l'uomo che avrebbe rimesso Milano sul trono d'Italia, se avesse perso amen, la lista degli allenatori che avevano fallito all'Olimpia era talmente lunga che il suo nome si sarebbe semplicemente mescolato insieme agli altri. L'errore, però, è stato quello di credere che il ragionamento fatto per il primo anno sarebbe venuto buono anche per il secondo. Così non poteva essere, evidentemente.  

4. La squadra era forte, ok, ma le partite non si vincono da sole.

Gli arrivi di Ragland, Kleiza, Brooks non sono serviti a compensare le partenze di Langford, Jerrels e Gani Lawal.  Ma la rosa era altamente superiore a quella delle avversarie, in ogni caso. La partita di ieri (a onor del vero, la prima "bella" persa da Banchi dopo 4 vittorie consecutive in partite dentro-fuori), con ogni evidenza, è stata la fotografia più nitida delle squadre "banchiane".  Se a Gentile non entra il tiro, se Hackett va a corrente alternata, se Kleiza è confinato in panchina dopo una serie disastrosa, ecco che il solo Samuels ha cantato, suonato, portato la croce, supportato solo a sprazzi da Joe Ragland. Ecco che nel supplementare i tiri sono nati solo da situazioni di isolamento, e infatti l'Olimpia ha totalizzato un orribile 0-7 dal campo, segnando solo sei punti dalla lunetta nei 5 minuti di prolungamento dell'incontro.  Ecco che il prolungamento si è reso necessario anche perché l'Olimpia, avanti di tre a otto secondi dalla fine, ha messo Moss (1,96 per 95 kg) a fare taglia fuori su Shane Lawal (2,08 per 102 kg), col risultato di concedere ai sardi ben due extra possessi, il secondo dei quali è valso loro il canestro del pareggio sulla sirena. Ecco che David Logan in apertura di supplementare sembrava Michael Jordan, ecco che Shane Lawal sembrava Dennis Rodman (21 rimbalzi di cui 10 offensivi).  La triste realtà che è emersa ieri al PalaOlimpia è che l'organizzazione di gioco esalta il rendimento dei singoli, che però da soli non possono bastare sempre e comunque a vincere le partite.

5. Milano avrebbe potuto aprire una dinastia, così non sarà. 

Due primi posti in campionato, uno scudetto e un'eliminazione in semifinale. Due Coppe Italia giocate in casa, un'eliminazione ai quarti e una sconfitta in finale.  Una Supercoppa persa in finale. Rendimento in Eurolega bene ma non benissimo.  Insofferenza della piazza ormai palpabile.  Ci sono tutti gli elementi per ritenere che l'esperienza di Banchi a Milano si chiuderà con quest'annata da "zeru tituli", e del resto non potrebbe essere diversamente.  Su chi punteranno, le scarpette rosse, per il più imprevedibile "anno zero" della loro storia recente?

6. Due note a margine, una in negativo, una in positivo.

Come si evince dall'immagine che correda il presente articolo, diciamo che l'Olimpia non ha compiuto esattamente un'operazione simpatia, anzi. Non che fosse obbligata a farlo, ecco, ma poi non ci si può lamentare troppo se in tanti hanno tifato contro i biancorossi.  Il problema vero, però, quello che attiene al lato tecnico, è che in realtà si è percepito per tutto l'anno un "senso di superiorità" da parte dei giocatori dell'Olimpia, che sono a volte scesi in campo con la convinzione - legittima finché non diventa ostentata, o finché non viene smentita dai fatti - di essere nettamente più bravi degli avversari, un atteggiamento ai limiti della spocchia che, alla fine del salmo, gli si è rivoltato contro.

Ma non è tutto da buttare, anche se c'è da rifondare.  Il materiale umano a disposizione è comunque di livello assoluto, ci sono dei punti da cui partire, delle situazioni da definire, dei ruoli da puntellare, ma non si parte dal vuoto assoluto.  La parte più ardua del prossimo coach dell'Olimpia Milano sarà quella della ricostruzione psicologica.  Non a caso, il giocatore che più di tutti è potuto uscire a testa alta da questa serie è stato quello che non ha mai lesinato una goccia di energia quando era in campo, Bruno Cerella.  Uno da cui Milano farebbe bene a ripartire, per esempio.

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