mercoledì, aprile 20, 2016

NBA 2016: Beat G.S. state of mind




Anime belle

   Ammettiamolo, siamo tutti anime belle. Ci piace tantissimo il terzo tempo che segue le partite di rugby, stravediamo per gli stadi di calcio senza barriere, i gemellaggi tra le tifoserie, i palasport dove la squadra di casa esce sconfitta tra due ali di folla e applausi scroscianti.
   Ma c’è una parte di noi che tifa contro, negarlo ad oltranza di fronte agli altri ci farebbe sembrare variamente ipocriti, negarlo a noi stessi sarebbe una spia importante della necessità di un percorso di analisi.  E questa parte di noi ogni tanto ha bisogno di esprimersi.  È la parte dei tifosi laziali che nel 2010 espose lo striscione con su scritto “OH, NOOO” quando i propri giocatori persero in casa contro l’Inter, permettendo ai nerazzurri di tornare in testa alla classifica della serie A, scavalcando, ma guarda un po’?, la Roma. 

(I tifosi biancocelesti non si sono strappati le vesti per la sconfitta contro l’Inter, proprio no.)

   Ma è anche la parte dei tifosi dei Boston Celtics che, vista sfumare la possibilità di approdare alle NBA Finals del 1982 per mano dei Philadelphia 76ers, che li stavano battendo in una gara-7 al Boston Garden, uno degli edifici più sacri al basket della Storia di questo sport, decise che era giunto il momento di sostenere gli avversari in biancorosso, intonando un coro destinato a fare epoca: “BEAT L.A.!” (battete Los Angeles, ossia gli arcirivali dei Lakers)


(anche al di là dell’oceano a volte si tifa contro)

   Già, anche gli sportivissimi spettatori USA, talvolta, tifano contro.  Perché certe volte le rivalità sono innate, e quella tra Lakers e Celtics non potrà mai essere spenta del tutto.  Magari un po’ sopita, in momenti di grande dislivello tra le due squadre – come può essere quello attuale – ma esisterà sempre.  Chiedetelo a Kobe Bean Bryant, per quale partita si è conservato le ultime stille di energia in distillato di classe purissima. Scrivete 34 in 33 minuti, gli avversari avevano la canotta biancoverde, vedete voi.  Per onor di cronaca, quei Sixers 1982 non accontentarono granché i tifosi dei Celtics, perdendo per 4-2 la serie finale contro i gialloviola targati Pat Riley, Magic e Kareem.
   Tutto questo per dire cosa? Che riassumendo in un ipotetico coro da stadio – anzi, da palazzetto – le sensazioni che chi scrive prova ora che la regular season NBA è ormai andata, questo potrebbe essere, anzi sicuramente sarebbe, “BEAT G.S.!”

Lesa maestà, ma anche no.

   Indipendentemente dall’aver battuto o meno il record del 72-10 dei Chicago Bulls di His Airness, che pare abbia dato la sua benedizione a questa cosa in una conversazione con Draymond Green, indipendentemente cioè da eventuali reati di lesa maestà che comunque prima o poi qualcuno avrebbe dovuto commettere, perché nello sport niente è eterno, tantomeno i record, che per loro natura sono fatti per essere battuti, i Golden State Warriors di Steph Curry e compagnia tirante da tre appaiono destinati a vincere il loro secondo titolo NBA consecutivo, in virtù di un gioco in attacco virtualmente indifendibile, di una rapidità di esecuzione mai vista prima a nessuna latitudine, di un’abilità difensiva troppo spesso sottovalutata, di tutta una serie di fattori che ne fanno indubitabilmente la miglior squadra NBA di oggi.  Eppure, proprio per questo, perché sono una squadra extraterrestre anche tra i più forti del mondo, non si riesce a farseli sembrare del tutto simpatici.  Come il Barcellona nel calcio, anzi, un po’ di più, i Golden State Warriors non solo vincono, non solo stravincono, ma hanno sempre quel sottile atteggiamento di derisione dell’avversario che alla lunga un po’ snerva.  Se i blaugrana spagnoli battono i rigori di seconda, i gialloblù della Baia di San Francisco esultano ancor prima di vedere se la palla è entrata o meno nel canestro.


(il video si riferisce ad una partita di preseason, ma la scena si è ripetuta più volte con minime variazioni durante la stagione regolare)

Troppo belli per essere veri

   I Warriors hanno facce pulite, non hanno problemi extracestistici, non sono coperti di tatuaggi al punto di dover costringere un malcapitato grafico a toglierne qualcuno coi programmi di fotoritocco, non si vestono come rapper o come ex carcerati, non sono stati coinvolti in maxirisse con gli spettatori di una partita né in sparatorie, hanno storie in alcuni casi abbastanza anonime, in altri direttamente da film.  Prendete Steph Curry, per dire.  Ha fatto il college a Davidson, non a Duke o a North Carolina, perché lì non lo prendevano in considerazione nonostante il padre fosse un ex cestista professionista.  E al draft del 2009 è finito dopo Hasheem Thabeet, ma soprattutto dietro ai pari ruolo James Harden (e vabbè), Tyreke Evans, Ricky Rubio e Jonny Flynn.  Vedete voi.  E che dire di Shaun Livingston, uno che il 26 Febbraio 2007 aveva visto finire la propria carriera a neanche 22 anni, per un infortunio al ginocchio che qui non riportiamo perché decisamente per stomaci forti (se siete amanti del genere, cercate su youtube “Shaun Livingston Knee Injury”, ma il consiglio è quello di non farlo. Uomo avvisato, mezzo salvato).
   Insomma, più che una squadra di basket, un film della Disney, senza per questo voler mancare di rispetto né agli uni né agli altri.  E infatti negli USA, dove per queste cose vanno pazzi, hanno creato un hype sugli Splash Brothers and co. che non ha precedenti:  ormai, siamo giunti al punto che se Steph, bontà sua, fa un parcheggio in retromarcia senza dover fare manovra, ci sarà qualcuno che posta il video su Instagram, su Vine e su Youtube con un titolo del tipo “INCREDIBILE PARCHEGGIO DI STEPH CURRY”.  Ok, l’esagerazione è voluta, e che gli Warriors siano oggettivamente la miglior squadra del pianeta, oggi, è un fatto innegabile.  Al di là delle riflessioni di Mark Jackson, che comunque è uno che un po’ di NBA ne ha vista anche prima di fare l’opinionista TV, che è arrivato ad affermare che in un certo senso Steph Curry stia facendo del male alla pallacanestro, è tuttavia probabile che Golden State rappresenti un esempio sbagliato per i comuni esseri umani che si cimentano con il basket, perché loro hanno l'unico giocatore al mondo che tira col 40% nella zona che va dagli otto ai dodici metri dal canestro.  Perché i Warriors sanno tirare tutti da tre, e quando dico tutti, intendo tutti quelli che hanno un minutaggio significativo.  Perché - conseguentemente - loro possono partire in contropiede, arrestarsi sulla linea dei tre punti, tirare e segnare con una percentuale molto alta di riuscita, diciamo tra il 40 ed il 50%, mentre se lo facciamo noi comuni mortali, se va bene segniamo due volte su dieci, col risultato di A- fare imbufalire il coach, B- esporci ad un contro-contropiede, C- con ogni probabilità, subire un canestro facile, D- fare la figura dei bischeri. Quindi in breve il problema non sono loro, quanto i loro emuli presenti e futuri. Perché non potranno essere altro se non copie sbiadite degli originali, offrendo agli spettatori uno spettacolo di livello sempre più infimo: sempre meno attacchi in post basso, sempre più tiri da tre o al massimo attacchi in uno contro cinque. Lo vediamo già oggi nel basket collegiale, e in parte anche in quello italiano ed europeo, per dire.

Beat G.S., ok, ma chi?

   Arrivando al dunque, il succo del discorso è estremamente semplice:  i playoff NBA ruoteranno intorno ad un unico leit motiv:  chi potrà battere i Golden State Warriors?  In sostanza, gli indiziati sono due, non di più. Tutto il resto sarebbe una sorpresa troppo grande anche per gli standard americani, dove si vive di big upsets. 
   I primi indiziati sono quelli che arriveranno in finale di Western Conference, ovvero una tra i San Antonio Spurs e gli Oklahoma City Thunder.  Ovviamente più i primi (che comunque hanno chiuso con un impressionante 67-15, e già che ci siamo, 40-1 nelle gare casalinghem scusate del poco) che i secondi.  Gli Spurs giocano bene, a tratti benissimo, hanno un roster con un mix incredibile di esperienza (vi bastano Duncan, Ginobili e Parker? Se non vi bastano, aggiungete David West) ed energia (LaMarcus Aldridge, Kawhi Leonard, Patty Mills).  Hanno uno dei migliori allenatori della storia del gioco, e tutto sommato sanno di non avere poi molto da perdere, nel senso che nessuno avrebbe nulla da rimproverargli, se poi non arrivasse il titolo.  Ma, perché a questo punto della storia deve esserci un ma, in semifinale di conference troveranno gli Oklahoma City Thunder, che magari rispetto a loro sono un po’ più scoperti alla voce “esperienza” e pure nella casella “coach”, ma non perché Billy Donovan non sia bravo, anzi – solo che magari, trattandosi del suo primo anno in NBA, ecco, crediamo di non fare un torto a nessuno se affermiamo che Gregg Popovich gli sta ancora un po’ davanti.  Però la squadra che un tempo erano i Seattle SuperSonics (sospiro nostalgico) ha profondità di roster, atletismo, talento a sufficienza più o meno in ogni ruolo e due superstelle in Kevin Durant e Russell Westbrook, anzi, nel miglior Russell Westbrook di sempre. Difficile dire se basterà contro Golden State, perché molto dipenderà da quanto sia San Antonio sia eventualmente OKC si saranno spremute nei primi due turni, che invece non si preannunciano difficilissimi per i Warriors, per quanto i Clippers magari potrebbero almeno opporre resistenza. 
   Ma nell’ipotesi in cui non basti, ad attendere i ragazzi di coach Kerr ci sarà con ogni probabilità Cleveland, che sta viaggiando quasi a fari spenti dopo il defenestramento di Blatt e la sua sostituzione con Tyronn Lue (uno dei più grandi misteri della storia del basket dal punto di vista tecnico, al netto di LeBron James e della sua autorità in Ohio).  Ai più smemorati, tuttavia, giovi ricordare che lo scorso anno, con Kevin Love fuori per tutti i playoff, Kyrie Irving a mezzo servizio e poi fuori dalle finals dopo gara-1, LeBron e una banda di disperati (in quintetto con The Chosen One partivano Mozgov, Tristan Thompson, Iman Shumpert e Matt Dellavedova, roba che faticheresti in Eurolega, per dire) portarono la serie sul 2-1 prima che Golden State rimettesse a posto le gerarchie e si aggiudicasse il titolo.  Quest’anno Irving appare finalmente recuperato e ha disputato un signor campionato, Kevin Love salvo imprevisti dell’ultim’ora porterà i suoi 16+10 a referto, ci sono Mo Williams e J.R. Smith – che c’era anche l’anno scorso anche se nelle finals non lo si sarebbe detto – e c’è soprattutto LeBron, il concittadino di Steph Curry che ha una gran voglia di dimostrare a tutti che se Steph Curry è il futuro, lui è il presente della NBA.

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