mercoledì, maggio 04, 2022

Keith Van Horn, Entrepreneur, Former NBA Player.

"With the second pick, the Philadelphia 76ers select Keith Van Horn from the University of Utah".  La scelta del five stars prospect (prima che “Five stars”, soprattutto in Italia, assumesse tutt’altra connotazione) annunciata da David Stern con la sua solita, immancabile aria soddisfatta, venne accolta dai tifosi della città dell’amore fraterno, che avevano appena finito di lustrarsi gli occhi con l’annata da rookie di Allen Iverson, con un misto di applausi e qualche boo.  Diciamocelo, i Sixers coltivavano la segreta speranza di poter arrivare, con la seconda scelta, a Tim Duncan, visto che la prima chiamata assoluta spettava ai San Antonio Spurs che avevano già l’Ammiraglio, al secolo David Robinson, sotto le plance. Speranza piuttosto flebile, onestamente, visto che gli Speroni avevano già detto in lungo e in largo che avrebbero chiamato Duncan, ma che al tempo stesso avrebbero ascoltato tutte le offerte per aggiudicarsi il 21 da Wake Forest.  E invece niente, com’era in fondo prevedibile. 
La prima permanenza di Keith a Philadelphia, però, è di brevissima durata. Due giorni dopo il draft infatti i Sixers imbastiscono una mega trade coi Nets, che manda in New Jersey proprio Van Horn, oltre a Michael Cage, Lucious Harris e Don MacLean per ricevere in cambio Jim Jackson, Eric Montross, Anthony Parker e Tim Thomas, il rookie che i Sixers scelgono di affiancare a “The Answer” per creare un duo tutto esplosività e giocate spettacolari. Ecco, Van Horn aveva meno numeri spettacolari nell’arsenale, ma aveva – ha – una testa che funziona, e soprattutto arrivava in NBA con un bagaglio tecnico notevole. Il fatto di aver potuto completare la carriera collegiale nonostante i radar del basket professionistico fossero già sintonizzati su di lui sin dalla sua stagione da sophomore gli ha permesso di arrivare tra i pro con una laurea in Sociologia in tasca e diversi aspetti del gioco già consolidati. Purtroppo per lui, appena in NBA si videro arrivare questo giocatore bianco di 2.08 che sapeva tirare da tre, passare la palla e andare a rimbalzo, le etichette di “The great white hope” e di “nuovo Larry Bird” gli vennero appiccicate in automatico. La sua stagione da rookie inizia solo a dicembre a causa di un infortunio abbastanza serio alla caviglia, ma gli lascia comunque il tempo – in 62 partite – di mettere insieme 19,7 punti a partita con 6,6 rimbalzi e l’84,6% dalla lunetta. Dirk Nowitzki prima di Dirk Nowitzki, insomma. E per uno strano scherzo del destino, sarà proprio come cambio di WunderDirk che Van Horn chiuderà la sua carriera in NBA. 



La sua prima partita nella Lega lo vede opposto proprio a quei Sixers che lo avevano chiamato al draft e subito ceduto: un debutto non esattamente da consegnare agli annali, con 11 punti, 2 rimbalzi e 7 palle perse in 27 minuti, ma già nelle uscite successive Keith comincia a far vedere a tutti di che pasta è fatto. Il primo ventello arriva alla sua terza presenza in NBA, a Washington;  altre due partite e arriva il primo trentello, nella vittoria dei suoi Nets contro Denver.  Nelle ultime quattro partite del 1998, KVH viaggia a 22,2 punti e 11 rimbalzi di media, numeri che suonano sorprendenti solo a chi non aveva seguito la sua carriera collegiale. Sotto la guida del compianto Rick Majerus, il bianco californiano coi calzettoni al ginocchio mette insieme quattro stagioni con gli Utah Utes da 20,8 punti a partita con 8,8 rimbalzi, il 52% dal campo, il 40% da tre e l’85% ai liberi. Il che fa di lui il miglior marcatore di sempre nella storia dell’ateneo, cosa che ovviamente gli ha fruttato il fatto di essere il quinto giocatore a vedere la sua maglia ritirata dal suo college, onore toccato poco dopo anche ad Andre Miller ed Andrew Bogut. Non arriva il titolo di rookie of the year per una ragione estremamente semplice, e questa ragione estremamente semplice ha la canotta nero-argento col numero 21, non dovrebbe esserci bisogno di aggiungere altro. La sua seconda stagione, poi, va ancora meglio:  i punti a partita diventano 21,8 (quinto della NBA), i rimbalzi 8,5, la percentuale dalla lunetta sfiora l’86%. Nel suo terzo anno da pro, poi, arriva in New Jersey Starbury Marbury, ma paradossalmente il suo gioco ne trae giovamento. Se da un lato si prende qualche tiro in meno (e conseguentemente i punti scenderanno da 21,8 a 17 in due stagioni), il fatto di poter dividere la pressione delle difese con Stephon lo porta ad un miglioramento in molteplici voci statistiche. La percentuale dal campo passa da .428 a .441 e il tiro da tre dal .302 al .374, oltre a scendere anche in voci poco lusinghiere come le palle perse. Paradossalmente, però, proprio mentre il suo status di stella NBA si stava affermando, cominciava anche la sua fall from grace. Via coach Calipari, rimpiazzato prima da Don Casey e poi da Byron Scott, via Marbury per Jason Kidd, i Nets arrivano alle prime NBA finals della loro storia (la loro ultima serie playoff vinta risaliva al 1984), perse malamente contro dei Los Angeles Lakers oggettivamente più forti. Ed è lì che nel management dei Nets si decide che bisogna intervenire per colmare il gap: Van Horn va a Phila, stavolta da giocatore vero e non come pedina di scambio, insieme a Todd McCulloch, in cambio di Dikembe Mutombo, dopo aver disputato delle finals un po’ sottotono ed aver perso punti nella considerazione di coach Scott, che di lui disse: “non penso che volesse essere un grande giocatore. Penso che fosse abbastanza soddisfatto di quel che aveva. Era uno che lavorava duro negli allenamenti, ma non faceva mai quel qualcosa in più.” Ovvio, Dikembe venne preso nella speranza (vana) di poter contenere in qualche modo l’onnipotenza cestistica di Shaquille O’Neal: la casella “titoli vinti” dei Nets in quegli anni vi dice già il finale della storia. La sua unica stagione in maglia Sixers, comunque, è più che discreta:  15,9 ppg, 7,1 rimbalzi col 48,2% dal campo (sua miglior percentuale in carriera) e il 36,9% da tre. Statistiche che miglioreranno ancora nella stagione successiva, disputata in parte ai Knicks e in parte ai Bucks, ma Keith è un giocatore che non ama sentirsi “sostituibile”, perché sente giustamente di aver dimostrato ampiamente che quel livello gli compete: a Milwaukee perde il posto in quintetto per la prima volta nella sua carriera, e – insieme – probabilmente anche molti degli stimoli per continuare a giocare da professionista. I Bucks lo spediscono a Dallas, ma le sue presenze in maglia Mavs, spalmate in una stagione e mezzo, sono le ultime partite che giocherà da professionista. E dire che a Dallas, ancora una volta, aveva saputo dimostrare di poter fare bene in una squadra di alto livello, anche uscendo dalla panchina: nella seconda metà di marzo del 2005 mette a referto 10 partite consecutive in doppia cifra, tra cui tre sopra i 20 punti, sempre uscendo dal pino e in 21,5 minuti di impiego medio. Ovviamente, comunque, nelle gerarchie dei texani viene dopo Dirk Nowitzki e Josh Howard, e questa cosa riduce notevolmente il suo impiego nei playoff, e anche nella regular season successiva, l’unica della sua carriera chiusa con meno di 10 punti a partita. Nell’ultima gara della finale 2006, quella serie che porta il marchio a fuoco di Dwyane Wade, Van Horn colleziona un DNP. Non ha ancora 31 anni, ma decide che è il momento giusto per dire basta. “Uno dei più grandi motivi per cui ho smesso così presto è che i miei figli stavano crescendo e io volevo passare più tempo con loro e con mia moglie”, dirà. Paradossalmente, i Mavs lo scambieranno due anni dopo, da già ritirato, nella trade che riporterà sia lui che Jason Kidd alla squadra dove avevano iniziato la carriera, fruttandogli altri 4,3 milioni di dollari di salario dai Nets. 

Kidd a quel tempo è ancora un giocatore, e in maglia Mavs porterà poi a casa quel titolo di campione NBA che tanto aveva agognato, Van Horn è già un businessman che – infatti – avendo una testa che funziona, decide che la miglior cosa che può fare è far fruttare i quasi 89 milioni di salari ricevuti nelle sue stagioni NBA. 


Se volete sapere cosa fa adesso, il suo profilo personale e professionale recita:

Entrepreneur, NIKE Elite Basketball Coach, Director of Premier Basketball Club, Keith & Amy Van Horn Charitable Fund. Former Founder of Accuworks Software LLC, former NBA player. He has been married to his wife Amy for over 18 years and they have four children. They live in the beautiful state of Colorado. Some of Keith's hobbies include fly fishing, mountain biking, making wine, reading and all things technology. 

A volte, la vita dopo la NBA può essere comunque di successo. A ricordarci che la ricerca della felicità, magari per altre strade, non si ferma davvero mai.

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