Flashback.
Dovete sapere, nel caso questa cosa vi sia ignota, che annualmente ci sono due eventi sportivi che “fermano” gli USA: il Superbowl, la finale del campionato di football americano, che se siete insonni e avete una TV che prende i canali nazionali potrebbe esservi capitato di vedere; e le final four del torneo NCAA di basket. Ancora più delle finali del “piano di sopra”, della NBA, queste tre partite del college basket, stadio finale di una malattia che negli Stati Uniti è nota col nome di March Madness, sono un evento che ogni anno letteralmente paralizza la Nazione. Il sintomo più eloquente di questa malattia è rappresentato dai top manager di – prendiamo uno Stato dell'Unione non proprio a caso – Charlotte, o di una qualsiasi cittadina del North Carolina, che smettono letteralmente di parlarsi fino a quando i giocatori della University of Duke (dove hanno studiato gli uni) e quelli della University of North Carolina (dove si sono laureati gli altri) sono ancora in ballo nel Torneo. March Madness, appunto. Per entrare un attimo nel dettaglio, il torneo NCAA è una competizione ad eliminazione diretta alla quale accedono le migliori 64 squadre degli USA in quell'anno. Accade poi non tanto di rado che in questo ingranaggio ad eliminazione diretta finiscano stritolati dei signori squadroni, e che viceversa facciano strada le proverbiali “cenerentole”.
Giova, infine, aggiungere che le carriere di questi studenti nel mondo del basket collegiale durano quattro anni nella migliore delle ipotesi e solo uno nella peggiore. Poi saltano nel mondo dei Professionisti con la P maiuscola, sia esso quello della NBA o meno. Il lavoro di un coach di basket NCAA, che normalmente ha una panchina nettamente più stabile di uno che è a libro paga di Zamparini (alcuni sono in carica nello stesso college da trent'anni o più), è essenzialmente quello di allenare i ragazzi per sei mesi e fare scouting per i restanti sei. Se non sapete cosa voglia dire fare scouting, guardatevi il film “Basta vincere”.
Puntualizzazione 1: negli ultimi 14 anni, per i motivi sopra esposti, nessuna squadra ha vinto due titoli consecutivamente.
Ora, il nostro Rick Pitino andava a fare scouting con i cinque titoli nazionali che la sua Università aveva già in saccoccia, che come pagina uno del curriculum non è poi così male; andava vestito Armani, che in certi ambienti statunitensi è poco meno che andare vestito da astronauta; andava con un approccio motivazionale che era forse secondo solo a quello di Pat Riley. E fu così che, dopo i primi anni di assestamento, nella stagione 1995-96 si presentò ai blocchi di partenza della NCAA con una squadra talmente forte e ben assemblata che Federico Buffa l'ha definita “una squadra NBA vergognosamente chiamata Kentucky”.
Puntualizzazione 2: abbiamo detto che a volte gli squadroni finiscono stritolati nel meccanismo ad eliminazione diretta. Ma non SEMPRE.
Il cammino di UK nel torneo 1996 fu dunque il seguente: 110-72 al primo turno, 84-60 al secondo, 101-70 al terzo, 83-63 al quarto. Roba sentita a Barcellona 1992. Zona press, panchina lunga da sembrare una squadra di calcio. Quattro di quei dodici saranno scelti nel draft NBA del giugno 1996. Kentucky si metterà in bacheca il titolo numero sei della sua gloriosa storia, ma forse questo l'avevate già capito. A distanza di dieci anni, quella squadra è conosciuta e ricordata col nomignolo mica male di “the untouchables”.
Quello che fa di questa squadra un pezzo di storia di questo sport è che aveva appena cominciato a vincere. L'anno seguente, infatti, la vedremo perdere solo in finale, e per giunta ai supplementari, contro Arizona, squadra nella quale militavano nomi piuttosto noti, a vedere bene: Mike Bibby, Jason Terry, Michael Dickerson, Miles Simon.
Giugno 1997. Altri due pezzi se ne vanno al draft. Se ne va anche Pitino, al quale verrà affidata una ricostruzione dei Celtics che probabilmente, in quel momento, l'unico in grado di portare a compimento nel breve periodo era un signore nato a Nazaret circa duemila anni prima.
Si cambia allenatore, si passa da Pitino, bianco, bell'uomo, vestito Armani, a Tubby Smith, per la cronaca tuttora allenatore a Kentucky, un signore di colore molto distinto e molto capace, peccato appunto per il colore della pelle, che in quello stato non era visto esattamente come un pregio, anzi. Essere l'erede di Pitino non aiutava a semplificare la situazione. Risultato? I Kentucky Wildcats escono ancora vincenti dalla March Madness, vincendo in rimonta ai quarti, in semifinale e in finale. Tubby Smith, primo allenatore di colore nella storia di questa università, che in questi tre gloriosi anni è diventata la seconda più vincente di tutti i tempi, vince il titolo al suo primo anno. In quella vittoria, logica conseguenza di quelle di Pitino e degno finale di un ciclo, c'è un passo avanti enorme per vincere il razzismo in quello stato e negli USA in generale. Quattro di quei giocatori sono diventati professionisti.
Chi scrive ha ancora negli occhi le partite di quella squadra, e si alzava a orari impensabili di notte per vederle in diretta.
Nei titoli di coda, scorrono i nomi degli attori protagonisti: Antoine Walker, Tony Delk, Walter McCarthy, Mark Pope, Ron Mercer, Scott Padgett, Jamaal Magloire, Nazr Mohammed, Jeff Sheppard, Wayne Turner.
Rick Pitino.
Tubby Smith.
Se amate questo sport, li avete sentiti nominare praticamente tutti.
2 commenti:
Grandissima squadra è vero, ma non l'ho mai potuta sopportare troppo! E poi io son legato maggiormente alla Duke dei 2 titoli consecutivi con Laettner, Bobby Hurley, Grant Hill e quell'altro Hill.
Bellissimi articoli davvero. Complimenti!
Quando un articolo su Sua Maestà Aerea??? ;)
SpOOn^Man
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